Screening prenatale e test diagnostici: tutto quello che dovete sapere per arrivare preparati
Capire il risultato del test e decidere in preda all’ansianon è cosa facile.
Integrato, combinato, quadruplo. E chi più ne ha più ne meta. Sono i test che ci dicono qual’è la probabilità che il bambino che portiamo in grembo abbia un’anomalia cromosomica, di solito la sindrome di Down. Ma non offrono una certezza matematica, bensì un numero, o meglio, una frazione: uno su X. E quell’X può voler dire tutto o niente. I test di screening sono così. Lo dice la parola stessa, selezione. Non c’è il nero o il bianco, con la disperazione o la gioia che si portano appresso. C’è l’incertezza ansiogena del grigio. Quella fatta di un linguaggio che neanche un laureato in matematica, con la mente offuscata dalla pancia che cresce e dai fantasmi della malattia, capirebbe. Specificità, sensibilità, falsi positivi o negativi, percentuali. Ma cosa vuol dire? lo voglio SOLO sapere se è sano. E invece ho a disposizione una serie di esami, non invasivi, certo, che quindi non fanno danni, ma che servono solo a valutare il rischio, rispetto alla popolazione generale, di avere un bimbo malato.
Per esempio il test integrato (così come il quadruplo test o quello combinato) ha l’obiettivo di stimare il rischio di un feto di avere la sindrome di Down paragonato agli altri feti di madri della stessa età.
Se questo rischio risulta elevato, cioè supera la soglia convenzionale di uno su 270, solo esami invasivi come la villocentesi o l’amniocentesi potranno dire la parola definitiva.
Un ginecologo leale dovrebbe spiegare che la diagnosi prenatale è un percorso fatto a tappe in cui spesso i test di screening sono l’anticamera di quelli diagnostici invasivi. Alla fine della strada ci sono solo due opzioni: la consapevolezza di crescere un bambino con un’anomalia cromosomica oppure l’interruzione di gravidanza.
Perché per le malattie che cerchiamo di individuare, prima con test probabilistici e poi con quelli certi ma invasivi, non c’è cura. Se dunque l’ultima tappa del percorso non ci sta bene, perché la riteniamo inaccettabile, meglio evitare di intraprenderlo per trovarsi intrappolate nell’ansia.
Spesso le donne non hanno chiara la differenza tra test di screening e diagnosi prenatale invasiva.
I test di screening esistono solo perché non abbiamo un metodo che dia una risposta certa senza far correre rischi al feto. Questi sono nati per aggirare il rischio delle procedure invasive tanto che se un domani avessimo a disposizione un esame che unisce precisione e sicurezza questi test verrebbero spazzati via in poche settimane.
Spesso i rischi espressi in termini matematici non sono compresi.
Per aiutare a scegliere, il medico deve capire chi ha di fronte, cosa gli interessa e con quale priorità. Va tenuto presente infatti che ai test di screening vengono indirizzate solo le donne a basso rischio per selezionare quel piccolo gruppo ad alto rischio a cui verrà proposto l’esame invasivo.
Cosa aspettarsi quando si ritirano i risultati? Sul referto ci saranno due frazioni a confronto: il risultato del test mette a confronto il rischio generale, basato sull’età materna, con quello ricalcolato, specifico per quel feto.
Un dato freddo che i futuri genitori devono poter interpretare con l’esperto: solo così si può prendere una decisione che non sia solo affettiva, basata sulle emozioni e sull’esperienza personale.
Le persone preferiscono pensare che qualcosa accada o no e di fronte a un dato probabilistico tipo “uno su X” tendono a immedesimarsi in quell’uno sovrastimando il proprio rischio. La nostra mente è refrattaria al concetto di probabilità e anche quando lo comprende trova difficile capire se si tratti di un rischio basso o elevato. Perché la decisione sia più consapevole e razionale dobbiamo dunque capire bene cosa ci dice il medico e poterci ripensare a casa rivalutando ogni aspetto.
A influire su come ascoltiamo, per esempio, c’è la nostra aspettativa su quanto un problema potrebbe toccarci.
Il fattore età è tra i più noti: la rete abbonda di tabelle che correlano l’età della donna e il rischio di avere un bimbo Down. Rischio che aumenta con il passare degli anni e sui cui grava lo spauracchio dei 35 anni. Una soglia di convenzione dovuta al fatto che la procedura invasiva la si consiglia quando il rischio è maggiore di 1 su 270.
Proviamo a pensare di avere trentadue anni e un rischio legato all’età di avere un bambino Down pari a 1 su 725. Significa che, se abbiamo di fronte a noi un’urna contenente 724 palline bianche e una rossa, la probabilità che il bambino in grembo abbia la trisomia 21 è la stessa che abbiamo di estrarre la pallina rossa infilando la mano nell’urna. Mettiamo poi di avere un’amica, Marta, di 39 anni: il suo rischio legato all’età è di 1 su 139 (138 palline bianche e una rossa). lo e Marta decidiamo di fare un test di screening che ricalcola il nostro rischio combinando una serie di parametri (per esempio, oltre all’età, la misura ecografica della plica nucale all’l la settimana e il duo-test) il risultato è uguale per entrambe: uno su 410. Il numero è lo stesso, ma Marta sarà sollevata dal fatto che il suo rischio è inferiore rispetto alla media della sua età (che era 1 su 139). lo invece sarò talmente in ansia da decidere di fare un ulteriore esame, questa volta certo, ma invasivo.
Il rischio, dunque, ci sembra alto o basso a seconda della nostra esperienza, del contesto in cui lo collochiamo, della malattia di cui stiamo parlando. Possiamo considerare alto un rischio di 1 su 200 di avere un bambino Down e basso lo stesso rischio se parliamo di otite. E la percezione del rischio varia con la possibilità di individuarlo. E’ vero, infatti, che il rischio di una donna di 35 anni di avere un bimbo Down è pari a quello di morire prima dei 40 anni (entrambi 3 su mille), ma è anche vero che solo nel primo caso ci sono strumenti per saperlo e scelte per evitarlo. Ma c’è modo di farsi aiutare dal medico a capire il significato di quell uno su X che ci mette in ansia? Sì. Per esempio chiedendogli di non parlare in termini tecnica grafica che ha il potere di ridurre le ansie e la gravità percepita. Così per rendersi conto di che cosa significhi per una quarantenne avere un rischio di 1 su 70 di avere un bambino con sindrome di Down è utile la rappresentazione grafica di 70 piccole figure stilizzate. Una sarà colorata di rosso e le altre 69 rimarranno bianche.
Oggi gli screening consentono di individuare circa 1’80% di trisomie 21. Considerato che ogni diecimila bambini concepiti, dieci hanno la sindrome di Down, questi test ci permettono di trovare 500 feti con un rischio più elevato della norma e sottoporli all’esame invasivo. In questo modo se ne perderanno 5 (perché ogni cento amniocentesi o villocentesi vi è un aborto causato dalla procedura) e si individueranno 8 bambini Down. Gli altri 492 erano falsi positivi e i due feti con trisomia 21 che non sono stati selezionati dallo screening erano falsi negativi (la spiegazione nel box). Sulla carta questi test dovrebbero ridurre il numero di donne che si sottopongono a procedure invasive.